La sorveglianza sanitaria nel sistema aziendale di prevenzione Covid19 ruolo del Medico Competente
La centralità della figura del medico competente nel sistema aziendale di prevenzione e il potenziamento del suo ruolo al tempo della pandemia
Il legislatore italiano, chiamato a recepire le indicazioni provenienti dall’ordinamento comunitario in materia di salute e sicurezza dei lavoratori, ha disegnato nel tempo un quadro normativo, da ultimo razionalizzato e potenziato con il d.lgs. n. 81/2008, imperniato su di un insieme di technicalities (soggetti, procedure, adempimenti tecnici) tale da configurare un «vero e proprio sistema aziendale di prevenzione»
In tale sistema, destinato a operare, dopo le novità introdotte nel 2008, in una prospettiva prevenzionale essenzialmente di tipo organizzativo – che, cioè, enfatizza la dimensione dell’organizzazione nella programmazione e nella gestione della sicurezza nei luoghi di lavoro, la figura del medico competente ha acquisito più centralità.
Lo conferma l’orientamentoormai consolidato sebbene per certi versi discutibile – della Cassazione penale, giusta il quale il medico, per andare esente da responsabilità ex art. 58, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 81/2008 quando collabora con il datore di lavoro alla valutazione dei rischi, è tenuto a fornire un contributo improntato a un atteggiamento proattivo e propulsivo, pur nei limiti della sua qualificazione professionale, proprio in ragione del ruolo assegnatogli nel sistema organizzato della prevenzione, ruolo che la pandemia, per le implicazioni sanitarie che comporta, ha indubbiamente contribuito a potenziare
Non a caso, la Circolare del Ministero della Salute del 29 aprile 2020, n. 14915, significativamente intitolata «Indicazioni operative relative alle attività del medico competente nel contesto delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2 negli ambienti di lavoro e nella collettività», si riferisce al medico competente in termini di «consulente globale» del datore di lavoro, evidentemente in quanto soggetto in grado di fornire una collaborazione qualificata e inserita a tutto tondo in detto sistema.
A sua volta, quest’ultimo, costituendo, secondo le «Linee guida per la riapertura delle Attività Economiche, Produttive e Ricreative della Conferenza delle Regioni e delle province autonome» (da ultimo, Allegato 1 al d.P.C.M. 14 luglio 2020), «la cornice naturale per supportare la gestione integrata del rischio connesso all’attuale pandemia», sta diventando sempre più strumento di precauzione per tutelare dal contagio non solo i lavoratori, ma l’intera collettività.
Molteplici sono i profili – anche legati alla protezione della privacy del lavoratore che vengono in gioco quando si parla della figura in questione, proprio in virtù della funzione dalla stessa rivestita nella valutazione dei rischi e nella sorveglianza sanitaria, come opportunamente ricorda al punto 12 il «Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro», siglato da Governo e parti sociali il 14 marzo 2020 e successivamente integrato il 24 aprile: dalla continuazione dell’attività di sorveglianza sanitaria periodica anche durante lafase di più stretta emergenza, alla riammissione al lavoro dei soggetti che hanno contratto la malattia , al suggerimento, rivolto al datore di lavoro, di adottare eventuali mezzi diagnostici qualora ritenuti utili per contenere la diffusione del virus, solo per citarne alcuni.
La sorveglianza sanitaria eccezionale, tra specialità dell’istituto e ragioni protettive.
Come può facilmente evincersi dall’aggettivo «eccezionale» utilizzato dallo stesso legislatore, l’istituto presenta evidenti tratti di specialità rispetto a quello della sorveglianza sanitaria “ordinaria”, pure pienamente confermata dall’incipit dell’art. 83, comma 1 («fermo restando quanto previsto dall’art. 41 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81»), avendo carattere straordinario e transitorio.
Invero, da un lato, in questo caso il controllo sanitario, più che essere associato a un rischio connesso alla mansione svolta in sé e per sé considerata , risulta collegato alla situazione di fragilità del singolo.
O, per meglio dire, i due profili appaiono strettamente correlati.
Sicché, come affermato nel Vademecum del medico competente «Covid-19 Fase 2.
Accompagnare il lavoratore al rientro al lavoro», predisposto dall’Associazione Nazionale Medici d’Azienda (ANMA), il medico dovrà fornire la propria «valutazione razionale in merito a se e quando un lavoratore, che ha un proprio profilo di rischio legato alle sue caratteristiche individuali, può riprendere il lavoro in ragionevole sicurezza nella specifica propria situazione lavorativa che, a sua volta, ha un proprio profilo di rischio», rispondendo, pertanto, alla domanda se il profilo di rischio del soggetto sia, o meno, compatibile con quello dell’attività da lui svolta.
Per altro verso, a detto controllo è attribuita una vigenza limitata alla durata dello stato emergenziale.
Sul punto, merita comunque ricordare l’“ordinario” obbligo datoriale di cui all’art. 18, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 81/2008 («nell’affidare i compiti ai lavoratori, tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza»), cui si aggiunge, tra le misure generali di tutela, l’allontanamento del lavoratore dall’esposizione al rischio per motivi sanitari inerenti la sua persona, con adibizione, ove possibile, ad altra mansione (art. 15, comma 1, lett. m), e il punto 12 del Protocollo condiviso del 14 marzo/24 aprile 2020 – ormai sussunto in fonti pubblicistiche15 – laddove assegna al medico competente il compito di segnalare all’azienda «situazioni di particolare fragilità e patologie attuali o pregresse dei dipendenti…» e lo coinvolge alla ripresa delle attività per le «identificazioni dei soggetti con particolati situazioni di fragilità», oltre a raccomandare che la «sorveglianza sanitaria ponga particolare attenzione ai soggetti fragili anche in relazione all’età».
Pertanto, il datore di lavoro non potrà comunque disinteressarsi di tali situazioni, sebbene l’eventuale caducazione dell’istituto in esame, legata alla possibile mancata proroga dello stato d’emergenza, rischi di rendere indubbiamente più difficile ottemperare agli obblighi in questione specie laddove un medico competente non vi sia perché la normativa vigente non ne prevede la presenza
In effetti, in questa evenienza – a ulteriore conferma della specialità della sorveglianza ex art. 83 del d.l. n. 34/2020 – è lasciata al datore di lavoro la facoltà (onerosa)di scegliere se nominare un medico ad hoc per il periodo emergenziale o rivolgersi ai servizi territoriali dell’INAIL, che provvederanno alla richiesta di attivazione del controllo sanitario con propri medici del lavoro18, nel qual caso, però, non troveranno applicazione gli artt. 25, 39, 40 e 41 del d.lgs. n. 81/2008 (art. 83, comma 2).
Pertanto, in tale ipotesi non opereranno le disposizioni in tema di obblighi del medico competente – tra cui quello di collaborare alla valutazione dei rischi – e le previsioni che disciplinano lo svolgimento della sua attività, i rapporti con il Servizio Sanitario Nazionale, la sorveglianza sanitaria “ordinaria”, a partire dalle diverse tipologie di visite mediche ammesse, proprio perché il controllo è limitato all’individuazione di una potenziale fragilità del lavoratore in relazione al contagio da SARS-CoV-2 e alle più severe conseguenze che potrebbero da ciò derivare per il soggetto.
Dall’altro lato, è evidente che il controllo sanitario costituisce il presupposto per l’adozione di misure conseguenti, qualora dallo stesso risulti confermata la situazione di fragilità; misure che il medico competente potrebbe individuare avvalendosi del riferimento alle «prescrizioni o limitazioni» contenuto nell’art. 41, comma 6, lett. b), del d.lgs. n. 81/2008, a proposito del giudizio d’idoneità parziale, temporanea o permanente, e che, a titolo esemplificativo, potrebbero richiamare la necessità di ricorrere al lavoro a distanza, essendo poi rimessa al datore di lavoro la valutazione circa l’effettiva compatibilità del medesimo con le mansioni svolte dal lavoratore.
Lo conferma la legge di conversione del d.l. n. 34/2020, che riconosce il diritto a svolgere la prestazione in modalità agile anche in assenza di accordi individuali altresì ai lavoratori qui considerati, sulla base delle valutazioni del medico competente nell’ambito della sorveglianza sanitaria di cui all’art. 83, purché tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione (art. 90, comma 1, secondo periodo).
A prescindere da ogni considerazione su che cosa sia davvero il lavoro agile di stampo emergenziale, nelle realtà universitarie la questione della compatibilità di forme di lavoro a distanza (volutamente si usa questa formula generica) non sembrerebbe porre soverchi problemi, essendo le stesse già state ampiamente sperimentate per il personale tecnico-amministrativo.
Del pari, per quello docente, è stata testata generalmente con buoni risultati l’effettuazione a distanza dell’attività didattica (ivi compresa la partecipazione a esami e sedute di laurea).
Soluzioni analoghe, del resto, si sono attuate in occasione degli esami di maturità, prevedendosi che il medico competente comunicasse al dirigente scolastico l’idoneità del docente a effettuare l’esame in presenza o a distanza.
Così come può essere suggerito l’uso di DPI specifici o l’adozione di determinate misure organizzative.
Tra queste, pur nell’assenza di un collegamento espresso con il regime ordinario di cui all’art. 42 del d.lgs. n. 81/2008 – che prevede, ove possibile, l’adibizione del soggetto inidoneo a mansioni equivalenti o, in mancanza, a mansioni inferiori, con garanzia del trattamento corrispondente a quelle di provenienza – anche il mutamento di mansioni.
D’altra parte, al di là del fatto che la disposizione non figura nemmeno tra le previsioni la cui applicazione è esclusa ai sensi dell’art. 83, comma 2, ultimo periodo, tale regime risulta espressione di principi generali, come riconosce la giurisprudenza, secondo cui sarebbero già gli obblighi di sicurezza (art. 2087 c.c.) e quelli di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.) a imporre al datore di lavoro l’adozione di misure alternative (al licenziamento).
Qualora, invece, non siano praticabili soluzioni diverse dall’astensione dall’attività lavorativa, fermo restando in ogni caso, come ha cura di precisare l’art. 83, comma 3, che l’eventuale inidoneità alla mansione non può giustificare il recesso del datore di lavoro dal contratto38, si registra un’evidente lacuna, dal momento che solo per i lavoratori di cui all’art. 26, comma 2, del d.l. n. 18/2020 è prevista l’equiparazione di tale astensione al ricovero ospedaliero ex art. 87, comma 1, primo periodo, del medesimo decreto (almeno fino al 31 luglio 2020, essendo stato così prorogato dal “Decreto rilancio” l’originario termine del 30 aprile 2020)39.
Sicché, una volta esauriti ferie e congedi, e ove non siano applicabili altri istituti previsti dalla contrattazione collettiva, resta il problema della tutela ulteriore da riconoscere in tale ipotesi, non essendo stati approvati, in sede di conversione, alcuni opportuni emendamenti che avrebbero fornito risposta alla questione.
Allorquando, invece, la condizione di fragilità non sia accertata, permane, per il lavoratore, la possibilità d’impugnare il giudizio del medico competente ai sensi dell’art. 41, comma 9, del d.lgs. n. 81/2008, ossia davanti all’organo di vigilanza territorialmente competente.
Possibilità, tuttavia, che si dubita possa essere riconosciuta di fronte al parere dell’INAIL, non applicandosi detta norma ai medici di cui all’art. 83, comma 2.
Il che conferma, una volta di più, come le buone intenzioni del legislatore a tutela dei lavoratori fragili non siano sempre supportate da un adeguato apparato normativo, specie sotto il profilo del coordinamento – obiettivamente insufficiente – con le previsioni del d.lgs. n. 81/2008.
Fonte: Università degli Studi di Urbino
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